IN UN MARE DI SPETTACOLI
Volendo (e potendo) si potrebbe passare tranquillamente tutta l’estate
in giro a seguire gli innumerevoli spettacoli, concerti, rassegne, festivals
e via dicendo che ormai proliferano dappertutto per la gioia degli appassionati;
talvolta ben strutturati, altri un po’ raffazzonati. Ma insomma, di fronte
a tanto ben di dio, non stiamo tanto a sottilizzare, magari sarebbe auspicabile
che una tale programmazione fosse meglio distribuita in tutto l’arco dell’anno,
ma qui si entrerebbe in discorsi più complicati, quali la mancanza
di spazi non all’aperto idonei e più in generale tutta l’organizzazione
della politica culturale delle amministrazioni sia locali che nazionali.
Meglio allora ritornare a ripassare questa scorpacciata di spettacoli a
cui ho potuto assistere.
MUSICA
Quando si parla di manifestazioni musicali estive la mente corre subito
ad Arezzo e, più precisamente, ad Arezzo Wave. In effetti questa
ormai storica rassegna non finisce mai di stupire, tutti gli anni si assiste
ad un afflusso di pubblico sempre maggiore, come sempre maggiore è
l’interesse mostrato dai media verso questa formula che miracolosamente
si ripete immutabile, riuscendo a portare il fior fiore degli artisti di
tendenza su questo palcoscenico calcato ormai da molti dei migliori musicisti
in circolazione.
Passando ad analizzare l’aspetto prettamente musicale dell’edizione
di quest’anno non vorrei risollevare l’annosa e forse irrisolvibile questione
sul rock morto o vivo, su musica vecchia o nuova e così via. Certo
un considerazione mi sento di farla: mentre con i gruppi che più
volevano rappresentare l’attuale musica cosiddetta di tendenza ci si è
annoiati e parecchio (parlo del live act noiosissimo di St. Germain, dei
Costeau inadatti alle grandi platee aperte e in parte anche di Khan e congrega)
via via che ci spostava verso il rock più tradizionale, trito e
ritrito quanto volete, abbiamo cominciato però a divertirci; con
i Blonde Redhead e il loro suono molto debitore di certa new-wave anni
’80 per esempio, o con i non certo irresistibili su disco Guano Apes, che
però dal vivo sanno come trascinare il pubblico, o ancora con i
redivivi Living Colour e soprattutto con la vedette di questa edizione:
Nick Cave.
Non nascondo che prima di assistere alla sua esibizione nutrivo seri
dubbi sulla buona riuscita del concerto: la svolta mistico religiosa sempre
più accentuata e certe dichiarazioni da impiegato della musica non
lasciavano presagire niente di buono ed invece fortunatamente dopo
le prime note di “Stagger Lee”, con cui ha iniziato il concerto si è
capito che la grinta e la rabbia di tante sue storiche apparizioni c’erano
ancora quasi tutte.
Certo, ci siamo dovuti sorbire anche le implorazioni di “Oh my lord”
e di “Hallelujah”, ma insomma si può anche passarci sopra, quando
poi si può ascoltare “Do you love me?”, “Papa won’t leave you, Henry”,
una grande “Mercy Seat” o ballate struggenti come la meravigliosa ”Into
my arms” per chiudere poi con la delirante ed infinita “The curse of Millhaven”,
come si può passare sopra a qualche incertezza vocale di troppo
e anche a qualche nota di troppo fuori dalle righe del gruppo, nonostante
presenze storiche quali quella del fido Blixa Bargeld.
Altri “vecchietti” hanno avuto modo di dire la loro su altri palcoscenici;
mi hanno detto di un grande Neil Young con i Crazy Horses a Lucca e ho
avuto modo di vedere una tonicissima Patti Smith a Firenze.
Proprio questo concerto è stato forse l’evento musicale di questa
estate, tanti anni sono passati da quell’autunno del 1979 quando un’epoca
si chiuse per sempre.
Patti Smith di quei giorni nei suoi appunti ha scritto:
“Firenze fu il nostro ultimo lavoro. Arrivammo ed io battei le strade,
alla ricerca degli schiavi di Michelangelo. C’erano migliaia di ragazzi
accampati nelle strette vie del centro. Che cazzo stava succedendo ? Passai
davanti ad un’edicola e vidi la mia faccia sulle copertine di ogni rivista.
Seguita da orde di ragazzi urlanti cercai di raggiungere per vie secondarie
l’hotel Minerva. Mi rintanai là per ore, ingurgitando un espresso
dopo l’altro. Il nostro ultimo lavoro. In uno stadio di calcio. Chilometri
da Michelangelo. Facemmo il nostro lavoro. Finimmo il nostro programma.
La gente venne avanti. Era la nostra ultima “My generation”. Scoppiò
un’anarchia gioiosa e noi non facemmo nulla per evitarla. Ormai il mio
microfono amplificava le urla della folla insieme a una musica dissonante.
Alzai tutti gli amplificatori a dieci, salutai mio fratello e dissi “good
bye”. Mio fratello piegò e impacchettò la nostra bandiera,
ritirandola dal servizio. Io mi preparai per la mia nuova vita”.
Ecco, come d’incanto, di fronte al David illuminato, a Piazzale Michelangelo,
questa novella che sembrava ormai conclusa ricomincia in attesa di
nuove avventure; come d’incanto venti e più anni con momenti più
tristi che felici sembrano svaniti nel nulla. Patti apre il concerto ricordando
proprio quelle sensazioni di incredulità di fronte ad eventi più
grossi di lei e da cui si sentiva travolgere e nello stesso tempo di questa
aria magica ma opprimente di una città in cui si respirava aria
satura di vera arte in ogni angolo; poi tutto riparte proprio da
dove si era concluso: da una grande versione di “My generation”; il pubblico,
anche se numeroso, non è più quello oceanico di tanti anni
fa ed anche lei; capelli sempre lunghi ma ormai grigi, mostra i segni di
una età ormai non più proprio giovanile; ma la rabbia, la
carica emozionale che emana la sua musica sono sempre quelle ed anzi il
carisma è forse ancora cresciuto.
Coadiuvata dai soliti fidi amici del gruppo, tra cui Lenny Kaye alla
chitarra, ha così dato vita ad una cavalcata di un paio d’ore senza
respiro, con solo qualche momento di tregua allorchè le canzoni
hanno lasciato il posto a letture e sensazioni varie, sempre con l’accompagnamento
musicale del gruppo. Parole dure e sprezzanti per la sete di potere dei
governanti dei paesi che si apprestavano a ritrovarsi a Genova per il G8,
a cui ha dedicato una beffarda “I wanna be a rock and roll star”. Per il
resto tanti i cavalli di battaglia riproposti: da “Frederick” a “Dancing
barefoot”, da “Redondo beach” all’immancabile “Because the night”, dalla
bellissima “People have the power” con cui ha arringato i presenti a prendere
coscienza delle proprie possibilità di cambiamento, alla conclusiva
“Gloria”. Grande concerto veramente; musica figlia del punk ma debitrice
anche del rock più classico, musica sofisticata e trascinante al
tempo stesso, con una resa come di rado si riesce a sentire.
Peccato aver dovuto disertare quello stesso giorno il concerto dei
Black Heart Procession, organizzato dagli amici della Corte dei Miracoli
a Siena, cosa più unica che rara per una piazza restia a simili
gruppi ed a simile genere musicale; chissà che non sia un segno
di un auspicabile cambiamento.
Un paio di giorni prima, invece, sempre a Piazzale Michelangelo a Firenze,
si era esibito un altro “reduce” delle prolifiche cantine del CBGB’s di
New York: Willy De Ville. Di lui avevo ancora nitido il ricordo di un incredibile
concerto che aveva tenuto tanti tanti anni fa al Tenax, quando si era presentato
con una congrega di ispanici trapiantati a New York, che mettevano paura
solo a vederli. Fu un concerto torrido, tiratissimo che travolse d’entusiasmo
tutto il pubblico. Come dicevo però questo succedeva tanti anni
fa; il nostro ha ormai abbandonato le cantine e gli angoli di strada non
proprio sicurissimi, oltre che certi vizietti, ha messo su famiglia, si
è trasferito in Louisiana, vicino a New Orleans, in una grande fattoria
dove alleva cavalli. Ed anche la sua musica è cambiata: da un rock
tirato e assassino, figlio diretto di certo punk e della new vawe
si è spostato su sonorità più soul e blues ed il rock
che è rimasto si è fatto molto più di maniera. Certo
la classe non manca, la voce colpisce ancora, ma nel complesso il concerto
scorre via in maniera abbastanza piatta e soporifera, anche i vecchi hits,
come ad esempio “Spanish stroll” risentono di questo trattamento. Quando
ormai tutto sembra volgere alla fine però ecco il colpo di coda
del vecchio leone; annunciato dalla solita versione latineggiante di “Hey
Joe” si parte con un lunghissimo bis di circa 40 minuti in cui si ripassa
a ritroso tanta storia musicale degli ultimi decenni, passando da Elvis
Presley a John Lee Hooker, dai Beatles a Muddy Waters, e finalmente l’atmosfera
si scalda e la gente comincia a divertirsi davvero.
TEATRO
Anche qui l’offerta è stata generosa; rassegne con spettacoli
interessanti si sono svolte anche in luoghi solitamente avari di offerta
di un certo livello, quali la Val d’Orcia, l’Amiata, Radicondoli, l’aretino,
con spettacoli magari non imponenti ma spesso molto coinvolgenti.
Una menzione particolare per quel miracolo che annualmente si ripete
a Monticchiello, con tutto il paese cha sale in palcoscenico a rappresentare
se stesso; quest’anno con “Manonèabusodipodere?!..” si è
affrontato il problema molto sentito dello sradicamento dalla propria terra
e quindi dalle proprie radici, con un mondo esterno che non comprende più
e anzi minaccia la residua cultura contadina, dove ormai anche i
figli non capiscono i genitori che si ostinano a voler restare attaccati
alla propria terra ed al proprio podere.
L’appuntamento più importante delle rassegne teatrali di zona
rimane comunque Volterrateatro, anche se sempre più evidenti sono
i segni di una difficoltà a continuare ad offrire spettacoli di
qualità dovendo fare i conti con tanti fattori oggettivi esterni
che intralciano sempre più la buona volontà degli organizzatori.
Esempio lampante tutta la diatriba sulla Compagnia della Fortezza, formata
da carcerati della locale casa circondariale, a cui da qualche anno è
stato impedito di rappresentare gli spettacoli al di fuori dal carcere;
compagnia che, grazie alla collaborazione con il regista Armando Punzo,
era riuscita a mettere in scena spettacoli emozionanti e memorabili come
“The brig” già cavallo di battaglia del Living Theatre e una magistrale
rilettura de “I negri” di Genet. Il risultato di questo divieto è
stato naturalmente quello di limitare fortemente l’attività e le
prospettive future della compagnia, anche se ogni anno a pochi fortunati
è dato assistere all’interno del cortile del carcere alla rappresentazione
che nonostante tutto gli attori / carcerati continuano a mettere
in piedi; quest’anno è stata la volta di uno scarnificato “Amleto”,
la cui trama serviva più che altro da pretesto per mostrare l’inamovibiltà
della realtà carceraria, che piano piano si mostra allorché
viene smontato tutto il finto scenario paradisiaco a cui si trovano di
fronte gli spettatori all’ingresso nel cortile del carcere.
Tra gli altri spettacoli da segnalare l’oratorio di Ascanio Celestini
“Radio clandestina”, in cui si ricostruiscono i fatti delle Fosse Ardeatine,
con toni avvincenti e popolari si portano alla ribalta le tante piccole
storie di martiri innocenti, con il sorriso sulle labbra si raccontano
le durissime vicende di quei giorni e, partendo da molto lontano, si ha
modo di assistere alla nascita della Roma attuale.
Sempre in tema di guerra, da menzionare il bellissimo spettacolo “Roccu
u stortu”, messo in scena dai fiorentini Krypton con la regia e la perfetta
interpretazione di Fulvio Cauteruccio. Vi si narra la storia di un povero
soldatino calabrese mandato al macello in una guerra che non sente sua
con la sola utopia di potersi al ritorno guadagnare un pezzo di terra tutto
suo e che finirà fucilato senza capire nemmeno perché.
Da segnalare il curioso e originale allestimento, con il protagonista
accompagnato in scena da alcuni componenti del gruppo “Il parto delle nuvole
pesanti” che sottolineano, con canzoni e pezzi strumentali le vicende del
soldatino Rocco, in una sorta di teatrino musicale molto efficace e ben
riuscito.
Segnalazione anche per il sempre più bravo Leonardo Capuano
che, in “Le sante”, rende omaggio come dice lui, alle sue donne, dando
vita ad una incredibile e toccante galleria di personaggi femminili.
Curioso e simpatico anche l’esperimento, ripetuto dopo il successo
dello scorso anno, del Teatro delle Ariette con “Teatro da mangiare ?”
in cui, a dispetto del punto interrogativo del titolo, si mangia davvero,
seduti attorno ad un grande tavolo, mentre gli attori/cuochi inscenano
la loro storia che altro poi non è che la narrazione spettacolarizzata
della nascita della loro “compagnia contadina”.
E veniamo a quella che, per me, ma evidentemente non solo, vista la
grossa affluenza di pubblico e la caccia al biglietto, è stata la
miglior cosa vista a Volterra: lo studio dei Motus in preparazione del
loro nuovo spettacolo: “Room”.
Per chi non li conoscesse, mi perdoneranno Goffredo Fofi e Roland Van
Wassenhove, se per inquadrare questa compagnia di punta del teatro d’avanguardia
(se ha ancora un senso usare questa parola) prendo a prestito due loro
frasi che focalizzano perfettamente il “ciclone” Motus.
“Motus: cercano. Esprimono inquietudini. Pongono domande. Sono di oggi
e non di ieri o di domani. Intendono scavare dentro il presente. Rubano
al presente – che può essere un presente sgradevole, ma che è
l’unica cosa che ci è data davvero- la sua ombra, il suo specchio,
il suo di là.
E perché non dovrebbe esistere un modo di entrare nell’ombra
del presente attraverso le sue immagini, i suoi suoni, le sue soglie?
Precedendo attraverso una vera opera di destrutturazione dell’inmmagine
e dei linguaggi, componendo e ricomponendo poi la scena, insinuandovi anche
tutte le bassezze e banalità del contemporaneo, Motus è giunto
a ricreare un teatro unico, indistinguibile per rigore e ricchezza intellettuale.
E’ un teatro cinico e barocco al tempo stesso, che unisce in sé
il freddo distacco della perversione e il bruciante eccesso della passione,
della dedizione totale alla scena. Sotto questo filtro di ghiaccio vive
tutto il contemporaneo con gli entusiasmi e le sue implacabili contraddizioni;
scorre velocemente lo spaesamento di chi cerca di codificare lo spettacolo
secondo processi di elaborazione drammaturgia lineare, o di trarne chissà
quale messaggio buonista o liberatorio”.
Ecco, proprio questo essere immersi nella realtà di oggi e filtrarne
tutte le componenti è il pregio maggiore dei Motus, nei loro spettacoli
troverete, banalizzando, niente altro che la realtà che ci circonda,
ritroverete i suoni, le immagini, la musica, le storie in cui siamo immersi;
il tutto reso con un rigore ed un approccio visivo unico ed irresistibile;
colori e suoni che colpiscono gli occhi e la mente, storie che si intrecciano
e si spezzettano senza apparente logica, se non quella di ricostruire la
realtà, seppur trasfigurata in situazioni spesso estreme.
Tutti i loro spettacoli hanno fatto storia, dagli inizi con “Catrame”
del 1996 all'Orlando Furioso del '98 fino ai recenti “Orpheus Glance” e
“Visio Gloriosa”, con quest'ultimo che tanto scalpore aveva destato per
l’approccio non proprio ortodosso alla religione comunemente intesa, essendo
stato commissionato nell’ambito delle celebrazioni del Giubileo.
Il nuovo spettacolo, “Rooms” appunto, debutterà il prossimo
anno in maggio a Roma, ma come per i precedenti è già in
fase di costruzione mediante una serie di studi presentati, per adesso,
al Festival di Sant’Arcangelo e a Volterrateatro. Anzi, stavolta più
che mai, questi studi servono, nell’intenzione della compagnia, ad allargare
la collaborazione ad apporti anche esterni.
“Rooms” riprende la struttura scenica di quasi tutti gli altri spettacoli,
che si svolgono sempre in contenitori progettati appositamente e ben definiti
e più in particolare sviluppa la scenografia del precedente “Orpheus
Glance”; lì era stata ricostruita una vera e propria abitazione
in cui si aggirava Orfeo a caccia dei propri fantasmi, qui c’è la
ricostruzione di una stanza di albergo in cui si intrecciano tante
storie, tanti personaggi che si incontrano e si scontrano, si amano e si
odiano, si uniscono e si separano; una umanità uguale e diversa
dappertutto, un hotel che potrebbe essere sotto casa o all’altro angolo
del mondo. Si sprecano i richiami a personaggi di films, romanzi e canzoni.
Nella versione definitiva, alla camera con bagno reale di adesso dovrebbe
aggiungersene accanto un’altra virtuale, popolata da altrettanti personaggi
che vanno ad interagire con quelli reali, a creare così una maggiore
interscambiabilità di ruoli, ma anche un diversa visione della stessa
situazione.
Il pubblico curiosa in questa stanza seduto per terra su dei cuscini,
a dire il vero non proprio comodissimi, ma che rendono ancora più
netta la sensazione di “occhieggiamento”.
Se anche non siete appassionati di teatro, non lasciateveli sfuggire,
potrebbe essere amore a prima vista, come fu anni fa per me proprio qui
a Volterra; in ogni caso assisterete sicuramente a qualcosa che vi rimarrà
impressa nella mente per molto tempo.
Alla prossima.
IZIMBRA